Alvar Aalto. Nomen Omen.

La crisi dell’internazionalismo

Nel decennio compreso tra il 1929 e il 1939, a cavallo tra la Grande Depressione e il crescente vento di guerra alzatosi alla fine degli anni ’30, anche il mondo dell’architettura attraversa una crisi.
La perdita di fiducia in un mondo fatto di industrializzazione, serialità, e astrazione torna a mettere al centro dell’attenzione il tema dell’individualità. Le risposte a questa crisi dell’internazionalismo arrivano da tre figure molto diverse, ma che riescono ad affiancare una nuova “specificità”alle conquiste delle avanguardie che le avevano precedute (l’efficienza, la dinamicità, l’astrazione, le tecnologie). Si tratta di Frank Lloyd Wright , Giuseppe Terragni e Alvar Aalto. Le differenze di approccio tra queste tre figure cardine del movimento moderno stanno nel luogo di provenienza. Wright infatti, nato nel Wisconsin, unisce la cultura spaziale delle praterie del Midwest americano agli spunti provenienti dell’architettura europea del suo tempo, diventando una vera e propria icona dell’architettura del Novecento. Giuseppe Terragni invece, nato a Como, si confronta con il problema della storia e della preesistenza. Egli raggiunge lo scopo combinando i temi dell’architettura tradizionale (con una tendenza alla ricerca del volume puro) al mondo espressivo dei suoi contemporanei, ottenendo così edifici che sono insieme monumentali e dinamici.

E infine Alvar Aalto, nato a Kuortane, in Finlandia, instaura un dialogo tra la funzionalità del movimento moderno a un’estetica particolarmente legata a un paesaggio personale, una natura accogliente e benevola.

Una personalità pragmatica, si presenta al CIAM di Francoforte spiegando le sue idee con gesti, schizzi e racconti della sua vita quotidiana: Aalto rappresenta letteralmente un’ONDATA di aria fresca nel contesto della dottrina funzionalista. L’imprinting evidente nelle sue architetture è rappresentato dalla natura finlandese, dai suoi laghi e suoi boschi. Alvar Aalto con i suoi progetti ricerca un contatto con essa, e contemporaneamente utilizza gli elementi funzionali come elementi della sua poetica personale, uniti a un’attenzione particolare alle palette di materiali, cromatismi e tessiture. Questo atteggiamento può considerarsi perfettamente sintetizzato nella Villa Mairea del 1938.

Studio di un’opera: Villa Mairea

I committenti sono una coppia di amici di Aalto: Harry Gullichsen, un industriale del legno, e sua moglie Maire, da cui deriva il nome della villa, collezionista di opere d’arte.

L’impianto della villa è molto semplice, il volume è costituito dall’intreccio di due corpi a “L” sovrapposti uno sull’altro (morfologia della pianta sperimentata anche da Wright), su un terreno leggermente in pendenza. Essi definiscono una corte interna, che garantisce la compenetrazione con la natura circostante, la foresta. Le due ali sono perpendicolari e ospitano rispettivamente la zona giorno e la zona notte. La pianta ad L si allunga in un porticato aperto, caratterizzato da una copertura erbosa tipica dell’architettura tradizionale scandinava, che porta alla sauna e alla piscina, e che ripropone, specchiandolo, lo schema a “L”.

Le forme della villa possono essere viste anche come una rappresentazione della duplice natura di Aalto: le linee curve e il legno uniti al rigore dell’angolo retto e dei volumi bianchi.

Per quanto riguarda l’orientamento, Aalto dispone a sud il prospetto principale, con la pensilina d’ ingresso, le camere, la biblioteca, lo studio e parte del salotto; a est la cucina, spazi ausiliari e camere per domestici e ospiti; a nord tutta l’area è chiusa dalla grande foresta e racchiude la piscina; a ovest si colloca invece lo spazio più aperto.

Nel piano terra, luogo di vita sociale, lo spazio è studiato in modo fluido, così da avere la percezione di essere contemporaneamente sia all’interno che all’esterno dell’edificio. Qui gli ambienti sono disposti su due livelli differenti: dall’ingresso si salgono quattro gradini per poi ritrovarsi in un ampio ambiente di soggiorno, fulcro della casa da un punto di vista soprattutto distributivo, questo perché permette l’accesso al piano superiore, all’esterno e ai vari ambienti collettivi.

Simile al paesaggio del bosco circostante, nell’edificio viene riproposta una percezione antiprospettica dello spazio, senza un vero e proprio punto focale, l’attenzione viene indirizzata verso moltissimi elementi differenziati. Le variazioni coinvolgono il perimetro della casa, di volta in volta murario, vetrato o solo schermato, trattato con una grande varietà di materiali: pietra, legno, mattoni verniciati di bianco. Anche la tessitura dei soffitti e dei pavimenti è trattata con colori e materiali diversi, variamente illuminata, così come succede nell’ambiente naturale. La stessa figura geometrica subisce una progressiva dissoluzione, man mano che lambisce la foresta, assumendo nelle sporgenze del primo piano (lo studio di Maire) o, all’ingresso, modulazioni curvilinee simili alle ondulazioni del bosco.

La struttura portante, in pilastrini di acciaio o di legno, è disposta secondo una maglia che subisce continue anomalie, raddoppiando o triplicando i sostegni, disponendoli come una serie continua all’ingresso e nella scala interna, legandoli insieme con corde o intrecciandole con piante rampicanti. Essi non hanno soltanto una funzione strutturale, ma contrassegnano gli spazi “filtro” tra l’esterno e l’interno.

Il luogo dell’Imprinting

“Il natio borgo selvaggio”

La prima volta che sono inciampata nel concetto di imprinting, è stato l’anno scorso, un episodio accaduto proprio a Valle Giulia. Prima consegna del Laboratorio di Progettazione Architettonica 3, il compito era quello di organizzare spazialmente un complesso residenziale in un’area abbastanza grande e in forte declivio. Mi guardo intorno, osservo i lavori dei miei colleghi: griglie, rampe, moduli, ortogonalità. Il professore guarda le mie tavole perplesso e mi chiede come mi sia venuto in mente di collegare tutte le abitazioni con dei TORNANTI. Mortificata e confusa, mi trovo a rifletterci molto, fin quando mi torna in mente casa mia, e le cose cominciano ad avere senso.  E’ ovvio che per me il modo più naturale per affrontare una salita fosse quello.

Opi è un piccolo (e decisamente fotogenico) borgo, arroccato a 1250 metri sul livello del mare, al centro del Parco Nazionale d’Abruzzo, ed è qui che ho vissuto la mia infanzia. Una strada tortuosa che si snoda dalla base della montagna fino al suo punto più alto, dove sorge la chiesetta del paese. Soltanto di recente, e un pochino me ne vergogno, ho scoperto che nel 1929 lo sperone roccioso di Opi, e i suoi tornanti, furono rappresentati da niente meno che Maurits Cornelis Escher, visti da una delle vicine montagne, in uno dei suoi viaggi in Abruzzo. Mi chiedo come qualcuno di proveniente dalla pianeggiante Olanda potesse percepire un paesaggio di questo tipo.

Se dovessi descrivere funzionalmente lo spazio, direi, in breve: una strada che sale, le case sui lati. A rendere il tutto più complicato è la roccia, quella è difficile da non assecondare. Sui di essa spuntano le schiere di case, che verso l’interno, e quindi verso la strada, hanno i loro accessi, molti dei quali sollevati dal livello stradale con scale e terrazzamenti, mentre verso l’esterno si affacciano sulle montagne e i boschi che circondano Opi completamente.

Non c’è una casa che non abbia almeno una finestra o un balcone dai quali guardare la propria cartolina personale, ed il paese stesso si apre per mostrare la natura in cui è immerso. Ci sarebbe la finestra della mia camera, ad esempio, che guarda a ovest, verso la fitta faggeta a cavallo del confine con il Lazio, che nel giro di un anno capace di virare dal bianco glaciale, al verde brillante, al rosso intenso.

Quasi tutti gli edifici hanno più di un secolo, quasi tutti sono realizzati in muratura, quasi tutti si sono beccati almeno un paio di terremoti. Ci ho messo un po’ a decidere se fosse presuntuoso da parte mia andare a scomodare Leopardi, ma se questo non è un borgo selvaggio… Un presepe innevato, ostile e, lo ammetto, a volte decisamente spettrale che al primo sole si popola di romani in scarpe da trekking, alla ricerca di silenzio e venticello fresco. Tutto ciò insieme a una fauna autoctona di abruzzesi abbastanza schivi e riservati, le signore in implicita competizione per l’aiuola più bella, i pendolari che non vogliono abbandonare il proprio paese costi quel che costi, i giovani che sognano la città più d’ogni altra cosa, e ovviamente, gli animali. Sì perché a Opi e nei paesi vicini non è raro incontrare volpi, cervi e talvolta (specialmente prima del letargo) orsi, alla ricerca di cibo. Verrebbe quasi da aggiungerli nell’esiguo conto dei residenti, così, per fare numero.

Questo mucchietto di case di pietra sulla pietra, e le spigolose persone che accendono i loro camini, non si oppongono alla natura che li circonda. E tra queste c’ero io, che mano nella mano con mio Nonno Donato, con le mie gambe corte che affondavano nella neve profonda, ogni mattina, e arrivavo alla mia scuola elementare, circondata dai pini scuri, in tutto non superavamo i venti bambini. E cercando di scavare tra i ricordi legati alla mia infanzia nel Parco, se c’è una costante che li accomuna tutti è proprio questo, il percorso a piedi, il camminare. La ripida strada sterrata che collega il paese a casa della mia nonna materna, ai piedi della montagna, la mia bici con le rotelle con la quale giravo intorno a casa sua, le domeniche con mio padre, che mi ha portato su ognuna delle cime che si vedono in queste foto, sopportando stoicamente i capricci e la stanchezza della me di qualche annetto fa.

Se ci rifletto bene, mi piace pensare a quanto l’architettura sia solo in parte vissuta come “costruito”. La dinamicità tra i pieni e i vuoti, percorsi larghi, oppure strettissimi e tortuosi, dislivelli, gradini, terrazze sono parte integrante della nostra esperienza di un luogo. O almeno sono fondamentali nel raccontare il mio luogo. E i suoi tornanti.